Come proteggo la mia superbrillante idea da dieci milioni di dollari e come impedire agli altri di metterla in pratica per farci concorrenza? Se dovessi raccogliere le domande più frequenti che ricevo, questa è probabilmente nella top ten. Una domanda che molti creativi e imprenditori si pongono e su cui già il collega Simone Aliprandi aveva fatto alcune riflessioni in una sua ottima presentazione.
In realtà la risposta è molto più complessa di quanto si immagini. Il Tribunale di Milano ci dà uno spunto, la finale di Masterchef Italia ce ne dà un altro, entrambi chiari e definitivi.
La ricetta per il successo e la ricetta per un piatto non sono poi molto diverse. Sono idee astratte su come si combinano gli ingredienti per ottenere un risultato a cui nessuno prima era giunto, in un caso un metodo per fare soldi, nell’altro caso un piatto che ci fa vincere la finale di un cooking show. E così i metodi per curare le persone o per insegnare ai bambini non vedenti. Cominciamo dalla fine.
COPYRIGHT SU IDEE ASTRATTE
L’Associazione Italiana Ricerche Metodo Terzi si occupa di diffondere un metodo di insegnamento per i bambini non vedenti, fondato sulle esperienze e le elaborazioni di Ida Terzi. Due ex associati pubblicano un articolo in cui sostanzialmente riprendono gli stessi concetti espressi nelle opere edite dall’Associazione, la quale li cita in giudizio insieme ad altri convenuti, per plagio delle suddette opere, di cui lamentano la sostanziale scopiazzatura. Tralasciamo per un attimo le questioni sollevate sul marchio. Il Tribunale di Milano, nella sentenza n. 14716/2015 pubblicata il 24 dicembre 2015 (Relatore Gandolfi), decide in modo molto chiaro che per esserci violazione di copyright occorre che sia ripreso un insieme di elementi arbitrari contenuti nell’opera altrui, in quanto il diritto d’autore copre solo la forma di espressione, ma non consente di proteggere le idee e i principi che ne sono alla base. Qualora vengano ripresi elementi terminologici, occorre valutare se essi siano necessari alla compiuta esposizione dell’idea – e dunque sottratti alla privativa – oppure se siano non necessari, e allora riprenderli pari pari sarebbe violazione del diritto altrui.
Il copyright, o diritto d’autore, non è dunque un modo valido per proteggere l’idea di fondo, ma soltanto la sua espressione concreta. Anche nel campo del software avviene lo stesso. Anzi, in modo anche più chiaro la direttiva europea sul software prevede espressamente che chiunque possa analizzare una copia del software altrui, di cui abbia legittimo possesso, al fine di determinarne i principi di funzionamento, anche al fine di replicarlo pari-pari, purché non si copi il codice sorgente, eventualmente ottenuto attraverso il reverse engineering, che in questo caso significa “decompilazione”. In Europa il caso è stato ampiamente trattato nella sentenza Sas Institute v. World Programming Language (Caso C-406/10).
Allo stesso modo, una ricetta è protetta dal copyright solo nella sua narrativa, ma non nei principi e procedimenti che insegna. Dunque il prodotto dell’applicazione nel mondo reale non è un’opera derivata della ricetta, e io posso tranquillamente riprodurla.
IL FORMAT (COPYRIGHT, MARCHIO E CONCORRENZA SLEALE)
Sempre parlando di Masterchef, mettiamo di voler replicare il successo della trasmissione, imitandone i principi di gara. Masterchef è un format, di un tale Franc Roddam (è citato nei titoli di coda). Ma cos’è il format? In realtà il format non ha una connotazione precisa. È qualcosa che è a metà tra il copyright, il marchio e la tutela dalla concorrenza sleale, tutti oggetto di protezione e che insieme possono rappresentare un argine verso le imitazioni eccessivamente vicine all’originale.
Il marchio è facile. Se uso un marchio identico, o anche “confondibilmente simile”, vi è una diretta contraffazione. La similitudine può essere sia nell’aspetto grafico (la forma del logo, il suo colore), sia nell’aspetto verbale (il nome), sia nella combinazione di essi (ma esistono anche marchi sonori, tridimensionali, eccetera). La tutela del marchio si limita però a ciò che marchio è, un segno identificativo, che può essere nel nome del programma, oppure anche in particolari elementi di esso (per esempio “mystery box”). Ma non può coprire elementi estetici – se non in limitata misura –, o funzionali.
Il copyright è anch’esso relativamente facile. Non è solo la riproduzione del “canovaccio” che potrebbe rilevare, ma anche di elementi di fantasia che sono all’interno del “racconto” del gioco e che ne rappresentano il tessuto narrativo ed estetico. Potrebbero essere particolari elementi estetici, un particolare uso delle luci, sigle musicali, nomi delle prove, frasi utilizzate, a condizione che essi, nella loro combinazione, siano dotati di sufficiente originalità e creatività.
Qualora questi elementi di originalità non siano presenti, o non siano sufficienti per attribuire loro la tutela del diritto d’autore, può ricorrere una forma di tutela dalla concorrenza sleale. In particolare qui rileva il concetto di imitazione parassitaria o servile, quella che sfrutta in modo pedissequo elementi caratterizzanti l’attività o i prodotti altrui, replicandone tutti gli elementi, anche quelli non essenziali, anche al fine di sfruttare il riconoscimento che il concorrente di successo abbia nel pubblico per avvantaggiarsi di riflesso nella percezione del pubblico. Qualora essi siano utilizzati in forme di comunicazione, soccorrerebbero le tutele sulla pubblicità ingannevole, sia in sede di autotutela pubblicitaria, sia nelle forme previste dal Codice del Consumo.
Questi elementi possono essere riconosciuti anche in altri ambiti. Nel franchising e nelle forme di distribuzione selettiva, per esempio, gli elementi identificativi (layout del negozio, insegna, marchio, selezione dei prodotti, comunicazione) e funzionali (know-how) sono oggetto di forme di esclusiva simili. L’imitazione di tali elementi può portare a conseguenze simili.
IL BREVETTO
Le tutele che abbiamo visto sopra riguardano elementi in un certo senso arbitrari, e non connessi con l’idea di business sottesa. Con il format ci avviciniamo, ma è sempre possibile sfruttare l’idea di fondo, purché si abbia l’accortezza di cambiare gli elementi superficiali. Guardate quanti talent show musicali esistono il cui concetto di fondo è sostanzialmente sempre lo stesso.
Per tutelare l’idea “profonda” lo strumento più calzante è quello del brevetto. Il brevetto protegge infatti la parte innovativa di un’idea, il meccanismo di fondo. Gli oggetti del brevetto sono un prodotto (sostanza, meccanismo, materiale) o un procedimento (come si fa qualcosa) o una combinazione di essi. Un’idea di business potrebbe essere dunque protetta con un brevetto di processo. Prendo qualcosa in entrata, lo sottopongo a “trattamenti” e ne ho un output. Per esempio, seleziono una categoria di titolari di appartamenti sfitti, una categoria di persone che cercano accomodamenti temporanei in appartamenti, creo una piattaforma che attraverso un motore di ricerca con particolari criteri li metta in contatto, gestisco le transazioni e lucro una percentuale sull’intermediato (OK, è AirBnB).
Questo trucco è stato tentato molte volte in Usa, meno da noi (in Italia, abbiamo l’art. 45 del Codice della proprietà industriale che esclude i metodi di affari dall’ambito della brevettabilità). Con qualche successo iniziale, poi quasi del tutto smontato da una serie di sentenze (tra le quali e più note sono Bilski v. Kappos e Alice Corp v. Cls Bank International). Le idee di business sono idee astratte, se non contengono un quid inventivo che risolva un problema pratico in maniera tecnicamente apprezzabile. Questo per la brevettabilità in sé del metodo. L’esempio che ho creato, oltre a essere totalmente astratto e non risolvere un problema tecnico o pratico, risulta da una combinazione non particolarmente innovativa di elementi già noti, magari non applicati nel caso concreto, ma che risultano abbastanza ovvi a chiunque venga in mente di creare una sharing economy intermediando appartamenti per usi temporanei. A nulla vale che tali idee e processi siano implementati in un computer e attraverso software, perché appunto il software non fa altro che trasformare in algoritmo (almeno in questo caso) un’idea astratta e come tale non proteggibile in sé, così come non lo sarebbe se tradotta in uno schema a blocchi o in un qualsiasi altro modo.
IL KNOW-HOW
Il know-how è la protezione per un’idea di business. Il know-how è protetto sia in termini generici dal segreto industriale, una branca della concorrenza sleale, sia in termini più specifici dal diritto industriale (art. 98 del Codice della proprietà industriale).
Il problema è che il know-how per essere tale, deve anche essere segreto. Una volta che l’idea di business è stata divulgata, perché è stata portata sul mercato, almeno parte di essa viene a perdere il valore e la protezione accordata. Ciò non toglie che nella fase preparatoria il know-how – purché sia tale, dunque veramente segreto e non facilmente accessibile agli esperti – gli elementi dell’idea, soprattutto se fissati su un supporto durevole (e non solo nella testa del creatore), sono tutelati e abbiano una rilevanza economica. Anche dopo la pubblicazione, elementi segreti di come si fa qualcosa possono essere dotati di alta importanza e tutela: si cita spesso la ricetta della Coca Cola, ma anche gli algoritmi di ricerca di Google sono know-how segreto.
Il problema nella fase di start-up di un’impresa è come attrarre investimenti, partner, collaboratori, convincendoli della bontà del progetto, senza privarsi del know-how. Lo strumento principale è l’accordo di riservatezza, o non disclosure agreement, che consente di allargare la sfera di conoscibilità delle informazioni, senza che queste possano considerarsi “divulgate”. Il problema di questi accordi, in pratica, è come tutelare entrambe le parti: chi rivela un’informazione su un’idea di business non vuole correre il rischio che l’altra parte se ne appropri; chi la riceve non vuole correre il rischio di privarsi della possibilità di sfruttare una delle proprie idee già sviluppate autonomamente o in corso di sviluppo, e non può verificare che l’idea sia nuova senza prima vederla, e una volta che l’ha vista, non può più dire “ma ci ero già arrivato io”.
In pratica, questo è lo scoglio in cui molti incorrono nel fare il giro delle sette parrocchie in cerca di aiuto per una startup. Dall’altra parte a me personalmente è accaduto varie volte di avere autonominati imprenditori con l’idea che rivoluzionerà il mercato, e poi hanno in mano qualcosa di già visto, oppure di interessante, ma totalmente privo di valore in sé, rispetto al costo e al valore dell’implementazione pratica.
Articolo di Carlo Piana - Licenza Creative Commons BY-SA 4.0
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