Consultazione pubblica sul Piano Nazionale di Digitalizzazione del patrimonio culturale: il mio contributo

Condivido pubblicamente il mio contributo alla consultazione pubblica promossa dall’Istituto centrale per la digitalizzazione del patrimonio culturale – Digital Library del Ministero della Cultura, con l’obiettivo di raccogliere commenti e contributi sui documenti relativi al Piano nazionale di digitalizzazione (PND).

Mi soffermerò unicamente sugli aspetti di mia competenza, cioè quelli relativi alla gestione della proprietà intellettuale, del pubblico dominio, delle licenze d’uso e dei relativi metadati.

Questi temi vengono trattati principalmente nel documento “Linee guida per l’acquisizione, la circolazione e il riuso delle riproduzioni dei beni culturali in ambiente digitale” a cui fa riferimento buona parte delle mie osservazioni.

Come giudizio complessivo, il documento è molto dettagliato, ben strutturato e prende in considerazione tutti gli aspetti fondamentali della materia. Le tabelle e gli schemi sono chiari e molto utili per chiarire i concetti chiave. Devo quindi complimentarmi con gli autori del documento per il lavoro svolto.

Ciò nonostante, rimangono alcune questioni problematiche che ritengo importante sollevare e che riporto qui di seguito. Nei prossimi giorni dovrebbero uscire anche alcuni miei articoli sul tema, con ulteriori riflessioni.

Dubbi sulla compatibilità dell’art. 108 CBC con l’art. 14 direttiva 790/2019

Bisogna innanzitutto sollevare una questione preliminare e dirimente, che se non considerata con la giusta attenzione rischia di inficiare tutto il lavoro fatto per la stesura di questi documenti e per la stesura dei venturi documenti (ad esempio quelli in materia di NFT che dovrebbero essere prodotti da un apposito gruppo di lavoro). 

Tale questione preliminare e dirimente riguarda l’incompatibilità tra l’art. 108 Codice Beni Culturali e l’art. 14 della Direttiva 790/2019 (con il relativo Considerando 53). Benché lo scorso novembre il legislatore italiano con il decreto di recepimento della direttiva abbia ribadito che “restano ferme le disposizioni in materia di tutela dei beni culturali” (si veda il nuovo art. 32-quater della L. 633/1941), tale incompatibilità non può essere ignorata.

Il volere del legislatore europeo è chiaro a tutti e non ci sono margini per distorcerlo in via interpretativa. Dunque una norma come l’art. 108 CBC difficilmente può continuare a rimanere in vigore, senza che sia esposta a un rischio di disapplicazione da parte dei giudici nazionali o al rischio di essere portata di fronte alla Corte di Giustizia UE.

Benché l’art. 108 non crei un diritto qualificabile espressamente come diritto d’autore o come diritto connesso, DE FACTO esso crea a favore dei musei e degli altri istituti di conservazione del patrimonio artistico il potere di (non) autorizzare le riproduzioni dei beni culturali e di imporre il versamento di compensi (più propriamente “canoni”) per tali riproduzioni. L’effetto è quello di contraddire implicitamente e quindi vanificare il dettato dell’art. 14 della direttiva.

Che piaccia o non piaccia a chi ha voluto mantenere in vita questo problematico sistema di tutela delle riproduzioni dei beni culturali, non basta giocare con le parole per eludere il volere del legislatore europeo (“non è un compenso per diritto connesso, è solo un canone per la riproduzione”); e non funziona nemmeno l’idea di giocare con la collocazione delle parole, inserendo tale principio nel Codice Beni Culturali e non nella legge sul diritto d’autore.

Se il Governo crede che, per eludere gli obblighi derivanti dalle direttive europee, sia sufficiente fare così, lo dica candidamente; perché allora ci sarebbero tante altre direttive “scomode” che si potrebbero disinnescare giocando semplicemente con le parole e con la collocazione delle parole.

Ora... Capisco che documenti come le linee guida, che hanno una funzione orientativa, non possano fare altro che dare per acquisito e consolidato il quadro normativo di riferimento; ancor più se tali linee guida sono redatte sostanzialmente da funzionari dello stesso ministero che si è fatto responsabile politico delle norme. Ma nello stesso tempo non si può perdere questa preziosa occasione per sollevare il problema.

In conclusione, se rimane molto improbabile che i firmatari delle linee guida assumano una posizione critica nei confronti delle scelte legislative del Ministero della Cultura e dell’Esecutivo di cui tale Ministero fa parte, a noi commentatori esterni e indipendenti spetta l’obbligo morale di dire le cose come stanno.

La bellissima nota n. 31 (pag. 36)

Unica posizione velatamente critica a questo sistema che emerge nel documento pare sia quella nella nota n. 31 a pagina 36, che recita:

“In prospettiva, la perdurante applicazione di diritti di riproduzione sui prodotti editoriali a medio termine potrebbe indurre l’editoria nazionale e internazionale a ricercare immagini di opere d’arte dai siti web di istituti culturali stranieri che già permettono il libero download e riutilizzo delle stesse immagini, con il rischio quindi di una progressiva marginalizzazione del patrimonio culturale del nostro Paese.”

Questa concetto non dovrebbe essere relegato a una semplice nota a pie’ di pagina, ma dovrebbe diventare parte integrante di uno dei paragrafi introduttivi di tutto il documento. E forse andrebbe scolpita su una lapide di marmo e apposta di fronte all’ingresso del Ministero della Cultura. 

Se da un lato l’Italia può vantare un patrimonio artistico-culturale mostruosamente più ampio e prezioso di altre nazioni, dall’altro lato avere un sistema di tutela così conservatore e così in controtendenza rispetto a gli altri paesi UE, rischia solo di trasformarsi in un boomerang.

Beni culturali e licenze CC

Mi soffermo sul paragrafo B1 (pag. 14 del documento PDF) e in particolare sulla seguente parte:

“Non appare dunque più congruente la pratica adottata da molti istituti culturali di rilasciare in rete le riproduzioni dei beni culturali sotto © Copyright (tutti i diritti riservati), dal momento che tale dicitura non solo non è applicativa della disciplina del Codice dei beni culturali, ma non trova presupposti nemmeno nella LdA; per lo stesso motivo, si pongono dei dubbi sulla legittimità del ricorso alle licenze Creative Commons per la circolazione delle riproduzioni di beni culturali in pubblico dominio, giacché tali licenze agiscono esclusivamente nella sfera del diritto d’autore e dei diritti connessi.”

Il testo mi trova assolutamente d’accordo e a mio avviso la sua importanza andrebbe enfatizzata. Già prima delle ultime novità legislative, a mio avviso l’applicazione delle licenze CC a riproduzioni fotografiche di opere in pubblico dominio da parte dei musei poggiava unicamente sul diritto connesso del fotografo (o del committente della fotografia) di cui agli articoli 87 e seguenti della legge 633/1941. Venendo meno quel diritto per espressa disposizione dell’art. 14 della direttiva 790/2019 e del conseguente nuovo art. 32-quater della legge nazionale, viene meno anche il titolo per applicare le licenze CC come anche qualsiasi altro tipo di licenza. 

A ben vedere, anche lo strumento CC0 risulterebbe inappropriato. Quelle immagini sono in pubblico dominio ex lege (o per dirla all’inglese, public domain by law), mentre il CC0 è un waiver di pubblico dominio, cioè un documento con cui il titolare dei diritti rinuncia all’esercizio degli stessi facendo diventare l’opera di pubblico dominio. Risulta quindi più appropriata l’applicazione di un public domain mark (PDM), cioè un’avvertenza con relativo sistema di metadati che ha la mera funzione informativa (informare i fruitori della condizione di pubblico dominio di quell’immagine) e non “costitutiva”. Suggerisco che questo aspetto venga chiarito e sottolineato.

Ovviamente, tutto ciò ha senso sul mero piano del diritto d’autore; mentre non funziona sul piano del Codice Beni Culturali che – ancora una volta – si rivela il vero problema (come d’altronde viene già segnalato nel documento al paragrafo 5.2, pagina 49).

L’etichetta MIC Standard e l’assurda ossessione per l’attribuzione

Nel paragrafo 5.2. (pag. 50) viene illustrato il concept e il funzionamento che stanno dietro l’etichetta MIC Standard. Se da un lato posso comprendere l’esigenza di uno strumento simile sul piano della gestione dei metadati, dall’altro lato, leggendo quel paragrafo, trovo ulteriore conferma dell’insensatezza di tutto il sistema di tutela previsto dall’art. 108 CBC. L’etichetta MIC Standard è pensata come parziale soluzione di un problema, ma in realtà è solo un corollario dello stesso macroproblema e molto probabilmente diventerebbe un’ulteriore complicazione da gestire per coloro che non hanno dimestichezza con questi temi.

Tra l’altro, l’idea di affiancare tra parentesi gli acronimi “BY NC” e quindi di spiegare il senso di questa etichetta utilizzando la tipica terminologia delle licenze CC è semplicemente sconsiderato. Dopo aver detto in vari punti del documento che non esiste più un diritto d’autore o un diritto connesso sulle immagini di opere di pubblico dominio e che quindi le stesse licenze CC perdono senso, come si può utilizzare l’espressione BY NC senza pensare che ciò aggiunga confusione alla confusione? 

Inoltre, né il concetto di BY né il concetto di NC trovano una corretta applicazione in questo caso. Infatti, innanzitutto il concetto di “Non Commercial” come inteso dalle licenze Creative Commons non coincide con quello descritto nell’art. 108 CBC; quindi, appunto, si creerebbe solamente inutile confusione.

Inoltre, non esiste alcun obbligo giuridico a una corretta “attribution”, né fondato sul Codice Beni Culturali, né fondato su altra norma giuridica. Su questo aspetto i musei dovrebbero finalmente farsene una ragione e smettere di ossessionarsi (per altro in modo davvero incomprensibile) con il falso problema della cosiddetta “attribution”. Un museo, per il solo fatto di avere in custodia un dipinto (magari temporaneamente) non può sentire l’esigenza di una attribution al pari di un autore che ha pubblicato un ebook o un video sul web.

Cerchiamo di capire meglio la questione con un esempio concreto. Se una monografia sull’arte del Rinascimento indicasse per errore che il Tondo Doni si trova all’Accademia di Brera invece che agli Uffizi, la direzione degli Uffizi non avrebbe alcun titolo giuridico per fare causa all’autore o all’editore della monografia. Sarebbe solo una questione – per così dire – scientifica, di poca accuratezza nella citazione delle fonti. Di certo gli Uffizi e l’Accademia di Brera potrebbero insistere affinché sia fatto un comunicato di rettifica e magari affinché nelle edizioni successive l’errore sia corretto. Ma non emergerebbe alcuna questione giuridicamente rilevante che possa essere assimilata alla violazione della clausola “attribution” delle Creative Commons o a una sorta di diritto morale dell’autore di un’opera a essere menzionato correttamente.

L’etichetta MIC Standard quindi non dovrebbe in alcun modo diventare un’occasione per perpetuare questo equivoco concettuale (molto diffuso e anche molto infondato) secondo cui i musei avrebbero una sorta di diritto a essere menzionati come fonte, ancor meno ora che non possono nemmeno più vantare il diritto di cui all’art. 87 e seguenti della legge 633/1941.

Utilizzi editoriali e limite delle 2000 copie/70 euro

Infine un breve cenno sul quanto emerge nel paragrafo U2 e in particolare nella parte a pagina 36, in cui si legge:

“La richiesta di autorizzazione all’uso per la pubblicazione in qualunque periodico o prodotto editoriale è così sostituita da una semplice comunicazione da parte dell’utente, come già avviene in ambito archivistico e bibliotecario per le pubblicazioni al di sotto delle 2000 copie e dei 70 euro di prezzo di copertina, contenente i riferimenti della pubblicazione e l’impegno ad inviare una copia del prodotto editoriale all’istituto detentore del bene oggetto della riproduzione. Un procedimento così concepito può prevedere la compilazione di semplici form da rendere disponibili online, mettendo in atto in questo modo una notevole semplificazione procedurale a beneficio sia degli utenti che degli istituti culturali; ciò ovviamente non preclude la possibilità per gli istituti di tutela di intervenire in casi di utilizzi eventualmente giudicati non consoni.”

Benché la soluzione di applicare anche ai musei una prassi già consolidata nel mondo delle biblioteche e degli archivi possa sembrare ottima, temo che in questo caso le linee guida stiano eccedendo rispetto al loro compito di interpretare le norme e orientare le prassi. I vari enti che hanno in custodia i beni hanno una sacrosanta autonomia di adottare delle policy interne più o meno restrittive sulla riproduzione dei beni culturali, perché il testo dell’art. 108 CBC lascia loro un alto livello di discrezionalità. Indubbiamente questa discrezionalità e la conseguente frammentarietà delle prassi/policy è uno dei grandi problemi portati dall’art. 108 CBC e indubbiamente sarebbe opportuno una maggiore uniformità e linearità da parte dei vari enti. Ma siamo sicuri che delle linee guida ministeriali siano lo strumento corretto per risolvere questo problema? Non dovrebbe forse trattarsi di una sorta di protocollo d’intesa tra tutti o almeno i principali musei ed enti culturali (da essi condiviso e sottoscritto pubblicamente)? Lascio il quesito volutamente aperto.

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