Open Access: non cadete nelle leggende metropolitane (parola di Elena Giglia)

Dietro autorizzazione di Elena Giglia, che con me e altri autori ha scritto il libro "Fare Open Access. La libera diffusione del sapere scientifico nell’era digitale" (Ledizioni, 2017), replico qui sul mio blog un suo post Facebook che a mio avviso merita maggiore visibilità per la sua particolare efficacia (vedi post originario qui). Si tratta di una risposta molto chiara e ficcante alle più diffuse critiche al modello Open Access, che mostra la debolezza di tali argomentazioni (tant'è che Elena le definisce "leggende metropolitane"). Per approfondimenti sul tema rimando proprio al testo del libro che potete trovare liberamente online in vari repository oppure in versione cartacea nei principali bookstore o direttamente presso l'editore. 


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Chi pensa che l’Open Access sia caro, sa quanto si spende ogni anno per gli abbonamenti alle riviste? 7 miliardi e mezzo, globalmente (dato 2016). E per cosa? Per chiudere fuori tutti quelli che non possono permettersi abbonamenti da migliaia di dollari per rivista (medici, professionisti, Piccole e Medie imprese). Il libro bianco del 2016 ha calcolato che se anche tutte le riviste Open Access facessero pagare una APC (spesa di pubblicazione), invece di 7, 5 miliardi se ne spenderebbero 3,5. Dato sovrastimato, perché solo il 26% delle riviste Open Access fa pagare APC.

Chi pensa che l’Open Access sia illiberale, dovrebbe considerare che il 39% di margine di guadagno netto di Elsevier – su un lavoro fornito gratuitamente da autori e revisori – significa che su un milione che il mio ateneo paga a Elsevier 390.000 euro di soldi pubblici [perché di questo stiamo parlando] vanno nelle tasche dei privati investitori in azioni di Elsevier.

Chi pensa che Open Access significhi scarsa qualità, forse dovrebbe dare un’occhiata a Retraction Watch. Ogni giorno ci sono ritrattazioni, per articoli con dati falsi o fabbricati o “scientific misconduct”. Tutti articoli pubblicati su riviste “prestigiose”, peer reviewed, di editori commerciali. E se ha ancora cinque minuti di tempo, si legga l’articolo di Casadevall che dimostra una correlazione netta fra l’Impact Factor della rivista e il numero di ritrattazioni. E in altri cinque minuti può leggere le “Cause della persistenza della Impact Factor mania” che riassume bene tutti i difetti strutturali dell’Impact Factor – che almeno in un caso è stato palesemente falsificato, quando nel 2003 Current Biology fu comprato da Elsevier e magicamente su JCR il numero di articoli pubblicati nel 2001 passò da 528 a 300, portando l’IF da 7 a 11.

Chi pensa che l’attuale sistema di valutazione non abbia alcuna influenza sulla crisi attuale della comunicazione scientifica, può leggere l’editoriale di un chirurgo, che lamenta: dati falsi, dati gonfiati, metodologie poco solide, riproducibilità pari a zero, perché oggi è più importante pubblicare un risultato che ottenere un risultato vero. Oppure si legga lo studio che evidenzia un 179% in più di auto-citazioni in Italia dopo la VQR.

E forse sarebbe anche utile sapere che l’Open Access è solo una piccola parte della Open Science, che significa rendere aperti tutti i passi della ricerca. O che in Open Access se si deposita il proprio paper si abilitano servizi come Unpaywall, lo SciHub legale, che funzionerebbe al 100% invece che al 54% se tutti depositassero il proprio lavoro. O come Open Knowledge Maps, mappe visuali della conoscenza. O che si possono preregistrare gli esperimenti (AsPredicted), depositare i dati (Zenodo), i software (GitHub), immagini dati e figure (Figshare), interi procolli (Protocols.io), interi workflow (My Experiment). O che si possono usare gli Open Lab Notebook che eseguono in tempo reale i calcoli fatti sui dati, o che si può annotare ogni pagina web (Hypothes.is).

Trovate tutti i riferimenti alla letteratura e ai servizi citati in queste slides (https://www.oa.unito.it/new/materiale-scaricabile/) o in questo video (https://www.oa.unito.it/new/video/#) e maggiori informazioni su Open Science e Open Access su www.oa.unito.it.
Il mondo, fuori dall’Italia e dall’ANVUR, sta cambiando. Forse dovremmo accorgercene anche qui, evitando nel 2018 i pregiudizi e le leggende metropolitane di 10 anni fa.

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