Troppe aspettative sulle relazioni? | Cap. 3, Par. 4 di "Cronache dalla radura"

Riporto il paragrafo 4 del capitolo 3 del libro "Cronache dalla radura. Riflessioni ed esperienze sulla complessità delle relazioni di coppia" (informazioni complete sul libro e link per ordinarlo disponibili su https://aliprandi.org/books/radura/; licenza CC BY-NC).
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Più sono gli anni passati all’interno del castello e più diventiamo avvezzi alle comodità della vita di corte e insofferenti alla dura vita della radura. Perciò, pur avendo fatto la scelta di uscire dal castello e vivere nella radura, inconsciamente cerchiamo nella radura gli stessi comfort del castello. O addirittura – come spiega Hollis in Progetto Eden – attraverso le relazioni cerchiamo spasmodicamente di ricreare quel paradiso terrestre (che era il ventre materno e le cure materne dei primi anni di vita), in cui tutto ci è dato per diritto o per grazia divina, dove regna l’armonia degli opposti e la contraddizione è bandita.
La percezione delle relazioni e la consapevolezza in campo affettivo ed emotivo sono ovviamente migliorate negli ultimi decenni, come conseguenza della civilizzazione, della maggior istruzione, di una cultura più moderna e paritaria, della diffusione della psicoterapia e del coaching. Ciò ha sicuramente portato un miglioramento generale, ma al prezzo di maggiori difficoltà e di standard sempre più elevati da rispettare.
Utilizzando il classico metodo del Rasoio di Occam viene quindi da chiedersi: se le relazioni si sono fatte più complicate, non sarà perché semplicemente dalle relazioni vogliamo troppo? Facciamo qualche riflessione a riguardo.
Avete mai chiesto ai vostri nonni o anche solo ai vostri genitori come si sono conosciuti e perché avevano deciso di sposarsi? Le risposte solitamente sono di questo tenore: “Eh sai, era una brava persona... Eh sai, era tanto dolce e carina… Eh sai, mi ha scritto una bellissima lettera d’amore… Eh sai, eravamo cresciuti insieme… Eh sai, aveva una buon lavoro…” Motivazioni semplici, che ora come ora difficilmente riusciremmo a percepire come sufficienti.
Io ricordo un racconto di mia nonna, quella paterna, l’unica che ho avuto il piacere di conoscere. Nata nel 1913 e sposatasi poco più che ventenne (quindi tra le due guerre) con mio nonno che era invece del 1890 e che io non ho mai conosciuto. Quelli erano davvero “altri tempi”; tempi che sembrano così lontani (quasi un secolo fa) ma che in realtà coinvolgono solo due generazioni precedenti alla nostra. Tempi in cui ci si corteggiava ancora dandosi del lei e in cui il contatto fisico era qualcosa di assolutamente eccezionale.
Ecco, ricordo che quando ero alle scuole medie, nell’ambito di un progetto di educazione sessuale attivato nella mia classe, i docenti ci chiesero di intervistare i nostri familiari sul tema della sessualità e dell’affettività. Dovevamo in sostanza chiedere come avevano appreso le loro prime “nozioni” in materia e quando avevano avuto le loro prime esperienze. La risposta di mia nonna mi stupì e mi rimase in mente, tanto da poterla raccontare ancora adesso con una certa dovizia di dettagli. Mi disse che tutto quello che lei sapeva sul sesso l’aveva scoperto proprio da mio nonno dopo il matrimonio. E parliamo di anni in cui separazione e divorzio non erano contemplati.
Quindi rendiamoci conto del rischio che si correva a legarsi per la vita con una persona presa “a scatola chiusa” in tal modo. E se poi il sesso non avesse funzionato?! Che fare? Nulla. In fondo l’importante era essere fertili e fare almeno un paio di figli; e avere sufficienti mezzi e salute per poterli allevare. Il resto era solo superfluo contorno, “grasso che cola” di una vita di coppia che non può pretendere anche la sintonia erotica come ingrediente fondamentale. E se chiedevate a mia nonna perché avesse sposato mio nonno, rispondeva: “era una persona per bene, di buona famiglia, con un buon lavoro; e poi era anche un bell’uomo”.
A tal proposito non posso fare a meno di citare la suggestiva fotografia fornita da Mirko Volpi nel suo “Oceano Padano” sul tema del corteggiamento e delle relazioni di coppia nelle campagne padane ai tempi dei nostri nonni (Volpi è più o meno mio coetaneo).
Nei tempi andati e gentili, [...] “parlare a qualcuno” significava “essere fidanzati” con qualcuno, intrattenere una relazione amorosa che preludesse ovviamente [...] al matrimonio. Lo stesso drappeggio di pudore soffocava ogni aperto riferimento, oscurava verbalmente non solo qualsiasi accenno alla fisicità, alla carnalità di un rapporto nascente, ma persino l’esplicitazione della dimensione sentimentale l’anche timida e delicata dichiarazione del proprio [...] amore. Il parlarsi era già indizio chiaro e sufficiente a individuare il commercio che si stava intrattenendo. [...]
Mia nonna parlava, da ragazza, a un tale di un paese vicino; ma si parlavano muti, lei in piedi in mezzo al suo cortile dopo aver sbrigato qualche faccenda, e lui dall’altra parte della strada seduto di traverso ai tavoli dell’osteria. [...] Si guardavano senza mai dirsi nulla, erano andati avanti per un bel pezzo, e tanto era bastato a farle credere che “si parlassero” seriamente. Poi lui si fidanzò, ma realmente, con un’altra, che poi sposò, e lei, mia nonna, gli serbò rancore per anni. Come per un imperdonabile tradimento, la violazione di un codice sacro.[30]
In sostanza, tutto era molto più semplice; bastava poco per dire “quella è la persona giusta” e le aspettative sulle relazioni erano decisamente più basse.
Adesso invece vogliamo tutto. Vogliamo la sintonia intellettuale, la sintonia culturale, la sintonia sessuale, la sintonia progettuale, la compatibilità caratteriale, lo stesso stile di vita, una parità reddituale. Insomma, vogliamo un puzzle fatto di tanti pezzi che però sono difficili da trovare tutti insieme e da incastrare tra essi; e non ci sentiamo soddisfatti fin quando il quadretto non è completo.
Non solo. Come spiegherò diffusamente nei prossimi paragrafi, più si va avanti con l’età, e più si elevano i nostri standard, non tanto sulle caratteristiche del partner quanto sulla qualità della relazione e su ciò che vogliamo da una relazione. L’effetto collaterale è ovviamente quello di un aumento delle nostre aspettative sulle relazioni e un aumento della complessità percepita.
Dunque, se da un lato questo “volere di più” rappresenta un’evoluzione, un segnale di una maggiore consapevolezza delle dinamiche relazionali, dall’altro la tendenza al perfezionismo rischia davvero di irrigidirci. Come dice la saggezza popolare, il meglio è nemico del bene. E in questo campo il meglio spesso lo si ottiene proprio quando nella relazione si è entrati e si è investito. Pretendere di avere un “meglio a priori” è già sintomo di un approccio “biased” alle relazioni.

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[30] Volpi, Oceano Padano, Laterza, 2015 (pag. 54).

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