Wired
Italia toglie la licenza CC dal sito e fa un pasticcio. Ma è così
difficile usare correttamente le licenze?
Faccio subito una premessa: a me
Wired è sempre piaciuta come rivista. La conobbi la prima volta
quando nel 2004 promosse The
Wired CD, uno dei primi e più importanti
esempi di compilation di musica sotto licenza Creative Commons,
diffusa su scala internazionale.
Fu così che quando Condè Nast
decise di inaugurare nel 2009 l'edizione italiana, io non esitai ad
abbonarmi; e da quel momento ho sempre rinnovato l'abbonamento
biennale fino ad oggi.
Nel 2010 accolsi con estrema
soddisfazione l'annuncio
fatto pubblicamente da Riccardo Luna (primo direttore) di sposare il
modello open content. Iniziarono a comparire sulla rivista vari
articoli sul mondo open e al sito Wired.it venne applicata una
licenza Creative Commons. Ottimisticamente speravo che prima o
poi anche la rivista cartacea avrebbe fatto quel passo, quantomeno su
alcune specifiche rubriche o su singoli articoli, dedicati appunti ai
temi dell'openness e delle nuove forme di diritto d'autore. In fondo,
sarò un pedante, ma considero un
atto di coerenza che, quando si scrive di certi
temi, l'autore e l'editore siano i primi a dare il buon esempio.
Forse qui chiedo troppo, quindi tralasciamo.
Purtroppo non fu così; quindi
dovetti accontentarmi di vedere solo il sito sotto CC. Era comunque
un buon compromesso, dal momento che sul sito c'erano comunque buoni
contenuti, spesso sulla falsariga di quelli presenti sulla rivista.
Nelle scorse settimane, mi capita di
tornare sul sito e di notare che è stato fatto un sostanziale
restyling del sito web; presto mi accorgo che il link alla licenza
Creative Commons è scomparso. Quindi il mio sesto senso di
giurista-nerd mi porta presto alla pagina “Condizioni
di utilizzo” dove scopro che l'unico residuo
riferimento alla licenza Creative Commons è nella sezione “Utilizzo
dei materiali e delle informazioni fornite dall'utente”.
In pratica, i contenuti originali
del sito risultano così sotto full copyright (tutti i diritti
riservati), mentre l'utente che carica contenuti e scrive commenti
deve accettare di farlo nei termini della licenza CC Attribuzione Non
Commerciale – Non opere derivate 2.5 Italia. A parte che non si
capisce come mai si stata scelta una versione 2.5, quando siamo già
arrivati alla 4.0, e che le linee guida per l'uso della licenza
richiedono che sia indicato anche il link al testo dove possibile (e
lì il link manca)... Ma il problema più sostanziale è che il
meccanismo voluto da quei termini d'uso non funziona molto, dato che
contraddice i termini stessi della licenza e quindi crea una
contraddizione nelle condizioni che l'utente dovrebbe accettare.
Leggiamo il paragrafo in questione:
Con la semplice messa on line (o trasmissione) del Materiale sul Sito
(o suo invio a Condé Nast), aderisci espressamente al sistema di
licenza Creative Commons, nella sua versione “Attribuzione Non
Commerciale – Non opere derivate 2.5 Italia”, i cui dettagli sono
liberamente consultabili sul sito di Creative Commons. Sei
consapevole che in virtù di tale licenza Condé Nast avrà la
facoltà di fare qualsiasi uso del Materiale in tutto il mondo e
senza limiti temporali – con ogni più ampia facoltà di cedere o
concedere tale diritto in sub-licenza a soggetti terzi – a fronte
della sola attribuzione della paternità del Materiale.
Innanzitutto non si capisce bene la vera natura di questo “diritto di sub-licenza” e soprattutto la sua effettiva compatibilità con quanto stabilito dalla licenza. Poi la frase “a fronte della sola attribuzione della paternità del Materiale” non sta in piedi, dato che la licenza scelta impone altre condizioni rispetto alla sola “attribuzione”.
Il dubbio che mi viene è che chi ha
redatto quei termini d'uso non abbia molto chiaro il senso delle
licenze Creative Commons.
Detto questo, bisogna anche dire che
l'editore di Wired è libero di scegliere il modello di gestione del
diritto d'autore che risulti più adatto al suo modello di business;
ci mancherebbe. Personalmente non condivido questi cambi di rotta, ma
è legittimo e giuridicamente. Però, che almeno venga fatto in una
maniera che risulti giuridicamente corretta. A mio avviso, un
“accrocchio” giuridico come quello che si legge oggi nelle
condizioni lo si può trovare sul sito di una piccola associazione
culturale o di una band indipendente, ma non su quello di una delle
principali case editrici del pianeta, che sicuramente ha al suo
interno un ufficio legale.
Poi pensiamo ad un altro aspetto del
problema, che forse è l'aspetto principale. Qual è il destino
dei contenuti che in questi quattro anni sono stati pubblicati con
licenza CC? Con questo quesito in testa, vado nella sezione blog
del sito dove l'amica Flavia Marzano tiene un
utile blog di notizie e commenti sul mondo
open, e scopro che anche lì è sparito il riferimento alla licenza,
e addirittura il link alle condizioni di utilizzo è “rotto”.
Rimango ulteriormente perplesso.
Tuttavia, lungi da me “crocifiggere”
i giuristi di Condè Nast. Tutti possono commettere imprecisioni e
tutti possono riparare, come spero facciano al più presto.
Ma questo episodio mi offre
l'occasione di riflettere pubblicamente su un tema a me caro e su cui
forse risulto un po' bacchettone; mi chiedo cioè: ma è davvero
così difficile utilizzare correttamente le licenze open?
Il caso di Wired (che appunto ha
l'aggravante di avere tutte le risorse per fare le cose nel modo
corretto) è solo uno dei tanti casi di uso “fantasioso” di
licenze open, (al di là che si tratti di licenze per contenuti,
come le Creative Commons, o di licenze per progetti software, come la
GPL. Basta leggere gli archivi delle liste ufficiali di CC per
trovare regolari segnalazioni in tal senso.
Io mi occupo di questo tema (sia
come avvocato sia come divulgatore) da un bel po' di anni ormai e
devo ammettere che all'inizio le informazioni che circolavano erano
poche, non chiare e difficili da trovare. Ora però la rete pullula
di manuali, guide pratiche, articoli divulgativi, filmati
esplicativi, saggi scientifici che spiegano come operare. Ci sono
anche numerosi forum online (sulle mailing list e sui social network)
nonché veri e propri sportelli di consulenza gratuiti a cui
rivolgersi.
Quindi basta davvero un piccolo
sforzo intellettuale e un po' del nostro tempo per entrare
nell'ottica giusta. Se non si ha voglia di fare questo sforzo, ci
sono consulenti specializzati (anche detti avvocati) che possono
offrire il loro contributo sotto forma di prestazione professionale.
Ma l'opzione “tutto subito, tutto gratis, tutto senza fatica”,
benché sia molto di moda in Internet, non è contemplata, mi
spiace.
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Articolo uscito sul sito di Open Knowledge Foundation Italia il 22 gennaio 2014.
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Articolo uscito sul sito di Open Knowledge Foundation Italia il 22 gennaio 2014.
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